Novanta abitanti, una sola bottega (dove il pane è fresco ma dolce perché lo cuociono nello stesso forno degli amaretti), una manciata di pollai, una distesa di orti e vigne, campi di erba medica e girasoli, case sul crinale della collina che sembrano di Lego. E una chiesa, con una piazza dove da 41 anni l’ultimo weekend di agosto viene allestita la festa della frazione. Siamo ai Crebini, di Castelletto d’Orba, nell’Ovadese: qui la metà dei residenti di cognome fa Massone. Facile capire cosa mi leghi a questo luogo. Si chiamano “radici”. Oggi la festa si è “nobilitata” in Sagra campagnola, le frittelle (“farsoi”) non ci sono più, i tavoli da 3 sono diventati 30 e il menù è da ristorante: agnolotti (fatti a mano: un anno partecipai, ma poi erano più quelli che mangiavo crudi che non quelli che preparavo), tagliolini con fonduta e nocciole (novità), polenta ai funghi, stinco di maiale, brasato, pasticceria secca. E un contorno di ricordi, nostalgia, malinconia, amarcord. Il rito prevede: rimpatriata col parentado, un uomo di famiglia da spedire a far la coda per le ordinazioni, piatti di agnolotti come se piovessero (di cui uno nel vino), e “carrambate” con vecchi amici o cugini alla lontana. Quest’anno siamo in 5 e beviamo un Dolcetto d’Ovada doc dell’azienda agricola Dario Montobbio, di Passaronda, la frazione vicina. Dario è il capostipite: negli anni Cinquanta, su intuizione della moglie Laura, avviò la sua attività: quattro vigneti, 20 ettari, e questo Dolcetto intenso, bello alla vista per quel rosso rubino, dal gusto persistente e un po’ prevaricante, spiccatamente mandorlato. E’ “vinoso”. Tornerei a sorseggiarlo, ma con tartufo, carni rosse e piatti saporiti.
Partecipanti, 5: io, e il parentado.
Un brindisi per le “sagre di paese”, con stordente euforia, e le “radici”: una casa che si apre solo una volta l’anno, cimeli di famiglia, un tiglio cresciuto con te, odori di infanzia e di nonni.
